"A dodici anni adoravo Davide: per me era come una pop star, le parole dei salmi erano poesia e lui era un divo. C’è da dire che, prima di diventare profeta e re di Israele, Davide ha dovuto subirne parecchie: dovette andare in esilio e poi finì in una caverna dove fece i conti con se stesso e con Dio. Ed è proprio lì che la soap opera si fa interessante: Davide compone il suo primo blues". Detta così, ha tutta l’aria di un’affermazione irriverente. E invece questa dichiarazione fatta da Bono, il leader degli U2, una delle rock band più importanti degli ultimi trent’anni, può essere letta come una originalissima dichiarazione di fede.
Una fede che peraltro emerge, a volte più marcatamente altre in modo più sfumato, in buona parte della produzione musicale del gruppo di Dublino. "Nella musica degli U2 – ha spiegato una volta Bono, allora Paul Hewson – ci sono cattedrali e strade. Le strade conducono alle cattedrali e mentre ci cammini ti senti nervoso, come se qualcuno ti seguisse. Se ti volti non c’è nessuno. Poi finalmente entri nelle cattedrali e solo allora capisci che c’era davvero qualcuno che ti seguiva: Dio". Da autentico irlandese, Bono non ha mai nascosto il suo essere cattolico, ma non tutti, se non i fan più incalliti, sono riusciti a scovare nelle sue canzoni i numerosi richiami alla Bibbia, dalle semplici allusioni a vere e proprie citazioni.
A guidarci in questa singolare ricerca filologica è il critico musicale Andrea Morandi in U2. The Name Of Love (Roma, Arcana, 2009, pagine 664, euro 22), un libro in cui vengono analizzati tutti i testi di Bono, dal primo album, Boy del 1980, all’ultimo, No Line On The Horizon dello scorso anno. Un lavoro interessante e sorprendente, visti i risultati: "La presenza della Bibbia nei primi dischi – afferma, infatti, Morandi – era una cosa nota. Ma che continuasse in modo persistente fino all’ultimo cd è stata una vera scoperta".
Certo, a molti giovani farà un certo effetto scoprire una così forte religiosità in una rock star del calibro di Bono e in un gruppo tanto noto e impegnato, eppure le canzoni sono lì a dimostrarlo. A cominciare dal brano "40", contenuto nel disco War, il cui testo richiama al Salmo 40, del quale riporta alcuni versetti, con l’aggiunta della frase – How long to sing this song? "Per quanto a lungo dovremo cantare questo canto?" – ancora oggi ripetuto dalle migliaia di persone, giovani e non, che affollano i concerti della band in tutto il mondo.
Ma se "40" è un caso particolare con le sue citazioni, le tracce del sacro nei versi degli U2 sono molteplici e a vari livelli. Un disco in particolare, October, il secondo della loro carriera, è significativo in questo percorso: "Una serie di riflessioni religiose elaborate da un ragazzo di vent’anni educato da un padre cattolico e da una madre protestante", annota Morandi. Tutte le canzoni dell’album sono, infatti, impregnate di richiami biblici. Soprattutto "Gloria", il cui testo si rifà al Salmo 30, ma riprende anche l’attacco del Salmo 51, con Bono che prima grida "Miserere" e poi canta "Oh, Signore, se avessi qualcosa / Qualsiasi cosa / Io la darei a Te". E poi Rejoice titolo di una canzone ma anche parola chiave (gioia) dell’intero disco, in cui Bono si identifica con Abacuc fino a "stendere il suo personale salmo", azzarda l’autore, in cui si passa dallo scoramento dei riferimenti biografici – la prematura morte della madre in particolare, un
lutto a lungo non elaborato – all’improvvisa comparsa di qualcosa a illuminare la strada che sembrava smarrita.
Dalla Genesi ai Salmi, da Abacuc all’Apocalisse – come nel brano Fire, dove le suggestioni del sesto capitolo di Govanni si ritrovano nella descrizione del sole nero, delle stelle cadenti – e arrivando ai Vangeli e scoprendo che in When Love Comes to Town si narra della tunica di Gesù giocata ai dadi, o che in Until the End of the World si parla di Giuda e del suo tradimento. In Tomorrow, dopo citazioni varie si giungerebbe addirittura all’annuncio del ritorno di Gesù: "Apriti, apriti / all’Agnello di Dio / all’amore di Colui / che ridonò la vista ai ciechi / Egli sta tornando".
Per Morandi, l’opera degli U2 si propone come un percorso circolare: dall’intimismo e dalla religiosità dei primi dischi, si passa attraverso lo smarrimento di Zooropa in cui Bono "si arrende e confessa di aver perso bussola e mappe, ragioni e religione, limiti e confini" e che contiene The First Time, brano in cui, partendo dalla parabola del figliol prodigo, riflette sulla perdita della fede. E si passa anche per Pop, un disco "pieno di discussioni con Dio", alla ricerca della strada perduta, difficile da ritrovare se, come recita If God Will Send His Angels, "Dio ha staccato la cornetta" e non resta che chiedersi cosa accadrebbe se "mandasse i suoi angeli, se mandasse un segno: sarebbe tutto a posto?". Fino ad arrivare a No Line On The Horizon, dodicesimo e ultimo album del gruppo, dove si ritrovano la luce e la speranza degli inizi, in particolare in Magnificent – che già dal titolo richiama il Magnificat – una lode a Dio, un "inno definitivo all’amore", come lo definisce il critico – e in Unknown Caller, dove lo sconosciuto che chiama è il Dio che salva.
Secondo Morandi "Quella di Bono è una scrittura molto sofisticata e spesso misconosciuta", per il quale l’artista "arriva a lavorare sulle singole parole come Bob Dylan e Leonard Cohen. Ma il personaggio è talmente esuberante da aver schiacciato la dimensione autoriale. Eppure solo lui e Dylan riescono a condensare la Bibbia nei tre minuti di una canzone". I temi – supportati da una musica di notevole livello – sono impegnativi, le riflessioni profonde, parlano di attualità, di problemi quotidiani, di responsabilità di fronte agli uomini e al mondo.
Non mancano richiami a scrittori cristiani celebri come Clive Staples Lewis, autore protestante molto amato da Bono, al pari della cattolica Flannery O’Connor, della quale apprezza il suo "modo di rappresentare il rapporto tra le persone comuni e Dio". Ma – aggiunge Morandi – "la cosa che rende convincente la scrittura di Bono è la sincerità con cui mette in campo una fede fatta di domande rivolte a un Dio vicino, un amico con cui si può anche litigare".
Insomma, spogliato dell’alone del successo, degli abiti di profeta del rock e di paladino di quel terzo mondo afflitto da povertà e fame, del personaggio influente e autorevole chiamato a parlare anche a congressi internazionali – si ricorda l’impegno in occasione dei concerti Live Aid in favore dell’Africa e della campagna che li accompagnò, che lo portò anche in Vaticano il 5 settembre 1999 quando ebbe un’udienza con Giovanni Paolo II – Bono resta un uomo in continua ricerca.
Una ricerca iniziata a Dublino nel 1980 che si conclude, per ora, e non per caso forse, nel Vicino Oriente, a Beirut, teatro dell’ultima canzone: Cedars of Lebanon. Un brano che parla di guerra, l’ennesima di quella martoriata terra. Il protagonista è un reporter che, lontano da casa, tra le miserie del conflitto, finisce per parlare con Dio: "Tu sei così alto su di me, più alto di chiunque altro/ Dove sei tra i cedri del Libano?".
Una fede che peraltro emerge, a volte più marcatamente altre in modo più sfumato, in buona parte della produzione musicale del gruppo di Dublino. "Nella musica degli U2 – ha spiegato una volta Bono, allora Paul Hewson – ci sono cattedrali e strade. Le strade conducono alle cattedrali e mentre ci cammini ti senti nervoso, come se qualcuno ti seguisse. Se ti volti non c’è nessuno. Poi finalmente entri nelle cattedrali e solo allora capisci che c’era davvero qualcuno che ti seguiva: Dio". Da autentico irlandese, Bono non ha mai nascosto il suo essere cattolico, ma non tutti, se non i fan più incalliti, sono riusciti a scovare nelle sue canzoni i numerosi richiami alla Bibbia, dalle semplici allusioni a vere e proprie citazioni.
A guidarci in questa singolare ricerca filologica è il critico musicale Andrea Morandi in U2. The Name Of Love (Roma, Arcana, 2009, pagine 664, euro 22), un libro in cui vengono analizzati tutti i testi di Bono, dal primo album, Boy del 1980, all’ultimo, No Line On The Horizon dello scorso anno. Un lavoro interessante e sorprendente, visti i risultati: "La presenza della Bibbia nei primi dischi – afferma, infatti, Morandi – era una cosa nota. Ma che continuasse in modo persistente fino all’ultimo cd è stata una vera scoperta".
Certo, a molti giovani farà un certo effetto scoprire una così forte religiosità in una rock star del calibro di Bono e in un gruppo tanto noto e impegnato, eppure le canzoni sono lì a dimostrarlo. A cominciare dal brano "40", contenuto nel disco War, il cui testo richiama al Salmo 40, del quale riporta alcuni versetti, con l’aggiunta della frase – How long to sing this song? "Per quanto a lungo dovremo cantare questo canto?" – ancora oggi ripetuto dalle migliaia di persone, giovani e non, che affollano i concerti della band in tutto il mondo.
Ma se "40" è un caso particolare con le sue citazioni, le tracce del sacro nei versi degli U2 sono molteplici e a vari livelli. Un disco in particolare, October, il secondo della loro carriera, è significativo in questo percorso: "Una serie di riflessioni religiose elaborate da un ragazzo di vent’anni educato da un padre cattolico e da una madre protestante", annota Morandi. Tutte le canzoni dell’album sono, infatti, impregnate di richiami biblici. Soprattutto "Gloria", il cui testo si rifà al Salmo 30, ma riprende anche l’attacco del Salmo 51, con Bono che prima grida "Miserere" e poi canta "Oh, Signore, se avessi qualcosa / Qualsiasi cosa / Io la darei a Te". E poi Rejoice titolo di una canzone ma anche parola chiave (gioia) dell’intero disco, in cui Bono si identifica con Abacuc fino a "stendere il suo personale salmo", azzarda l’autore, in cui si passa dallo scoramento dei riferimenti biografici – la prematura morte della madre in particolare, un
lutto a lungo non elaborato – all’improvvisa comparsa di qualcosa a illuminare la strada che sembrava smarrita.
Dalla Genesi ai Salmi, da Abacuc all’Apocalisse – come nel brano Fire, dove le suggestioni del sesto capitolo di Govanni si ritrovano nella descrizione del sole nero, delle stelle cadenti – e arrivando ai Vangeli e scoprendo che in When Love Comes to Town si narra della tunica di Gesù giocata ai dadi, o che in Until the End of the World si parla di Giuda e del suo tradimento. In Tomorrow, dopo citazioni varie si giungerebbe addirittura all’annuncio del ritorno di Gesù: "Apriti, apriti / all’Agnello di Dio / all’amore di Colui / che ridonò la vista ai ciechi / Egli sta tornando".
Per Morandi, l’opera degli U2 si propone come un percorso circolare: dall’intimismo e dalla religiosità dei primi dischi, si passa attraverso lo smarrimento di Zooropa in cui Bono "si arrende e confessa di aver perso bussola e mappe, ragioni e religione, limiti e confini" e che contiene The First Time, brano in cui, partendo dalla parabola del figliol prodigo, riflette sulla perdita della fede. E si passa anche per Pop, un disco "pieno di discussioni con Dio", alla ricerca della strada perduta, difficile da ritrovare se, come recita If God Will Send His Angels, "Dio ha staccato la cornetta" e non resta che chiedersi cosa accadrebbe se "mandasse i suoi angeli, se mandasse un segno: sarebbe tutto a posto?". Fino ad arrivare a No Line On The Horizon, dodicesimo e ultimo album del gruppo, dove si ritrovano la luce e la speranza degli inizi, in particolare in Magnificent – che già dal titolo richiama il Magnificat – una lode a Dio, un "inno definitivo all’amore", come lo definisce il critico – e in Unknown Caller, dove lo sconosciuto che chiama è il Dio che salva.
Secondo Morandi "Quella di Bono è una scrittura molto sofisticata e spesso misconosciuta", per il quale l’artista "arriva a lavorare sulle singole parole come Bob Dylan e Leonard Cohen. Ma il personaggio è talmente esuberante da aver schiacciato la dimensione autoriale. Eppure solo lui e Dylan riescono a condensare la Bibbia nei tre minuti di una canzone". I temi – supportati da una musica di notevole livello – sono impegnativi, le riflessioni profonde, parlano di attualità, di problemi quotidiani, di responsabilità di fronte agli uomini e al mondo.
Non mancano richiami a scrittori cristiani celebri come Clive Staples Lewis, autore protestante molto amato da Bono, al pari della cattolica Flannery O’Connor, della quale apprezza il suo "modo di rappresentare il rapporto tra le persone comuni e Dio". Ma – aggiunge Morandi – "la cosa che rende convincente la scrittura di Bono è la sincerità con cui mette in campo una fede fatta di domande rivolte a un Dio vicino, un amico con cui si può anche litigare".
Insomma, spogliato dell’alone del successo, degli abiti di profeta del rock e di paladino di quel terzo mondo afflitto da povertà e fame, del personaggio influente e autorevole chiamato a parlare anche a congressi internazionali – si ricorda l’impegno in occasione dei concerti Live Aid in favore dell’Africa e della campagna che li accompagnò, che lo portò anche in Vaticano il 5 settembre 1999 quando ebbe un’udienza con Giovanni Paolo II – Bono resta un uomo in continua ricerca.
Una ricerca iniziata a Dublino nel 1980 che si conclude, per ora, e non per caso forse, nel Vicino Oriente, a Beirut, teatro dell’ultima canzone: Cedars of Lebanon. Un brano che parla di guerra, l’ennesima di quella martoriata terra. Il protagonista è un reporter che, lontano da casa, tra le miserie del conflitto, finisce per parlare con Dio: "Tu sei così alto su di me, più alto di chiunque altro/ Dove sei tra i cedri del Libano?".